Questo racconto è contenuto nell’antologia “Sul Sentiero della Dea Venere” , ma erroneamente da un file a quello di stampa è stato omesso parte del testo e la Casa Editrice “Il Tricheco” lo ripropone nel suo sito.


«Pentitevi! Non vi resta molto tempo da vivere su questa terra!
La fine del mondo è vicina! Pentitevi!». Pietro Di Giovanni,detto “il predicatore”, questo urlava con un megafono tutte le mattine, un’oretta prima che iniziasse la messa. Il settantenne, magrissimo e con una lunghissima barba incolta, si posizionava proprio nella piazza antistante alla parrocchia, apriva il cavalletto dove inseriva una tela interamente dipinta d’azzurro cielo recante la scritta: “LA PAROLA DI GIOVANNI” e iniziava con le sue prediche a dispensare “utili consigli”, come amava definirli lui, per salvare l’anima. Blaterava contro il parroco, don Nerino Cuppiddu, reo di essere “in carne” e quindi già corrotto dal demonio per i suoi peccati di gola, ma non solo per quelli! Ce l’aveva inoltre con tutte quelle signore che sedevano sulle panche della prima fila, buone solo a battersi il petto e ad annuire con un cenno del capo a tutto ciò che don Nerino diceva nei suoi sermoni. «Non scuotete la testa in assenso a tutto ciò che afferma il blasfemo! Predica povertà ed ha il frigo pieno! Il petto battetelo con convinzione di pentimento per i vostri peccati! A cosa serve dire: “mi pento”, quando poi, fuori dalla chiesa, sparlate in fila al supermercato una dell’altra?! Ravvedetevi davvero e subito o dirò nomi, cognomi e descrizione di ciò che fate!», questo era stato il suo ultimo “utile consiglio” la domenica in cui il piccolo paesino di Firicalla passò all’attenzione della cronaca nera per l’omicidio proprio del folle predicatore trovato disteso in una stradina vicina alla chiesa con la testa fracassata da un corpo contundente. Al bar della piazza non si parlava di altro da giorni. I più anziani, col bicchierino di grappa in mano dicevano: «O prima o poi si sapeva che finiva così! Era un folle posseduto dal diavolo che abbanniava ogni giorno contro tutti!». Mastro Ciccio rincarava la dose: «Pacciu completo! Testa squagghiata! Vi ricordate quando diceva che don Nerino, alla fine dei suoi giorni, sarà gettato dagli angeli nella fornace ardente perché si strafoga e sorride con malizia a tutte le parrocchiane?!». «Vuoi insinuare chi l’ammazzò u parrinu?», chiese Pippo il giornalaio tra le fragorose risate generali indirizzate alle parole dubbiose di mastro Ciccio. L’uccisione di quello strampalato personaggio era diventato l’argomento principale delle conversazioni tra i firicallesi. E don Nerino? Che diceva? Il parroco dal grosso pancione e dal sorriso ammaliante si mostrò affranto al discorso per l’ultimo saluto a Pietro. Dentro di sé era conscio di essersi sbarazzato di una gran “camurria”, ma evitò di dimostrare soddisfazione per la scomparsa dell’artefice di tanti spunti per pettegolezzi che lo riguardavano. «Che adesso trovi la pace che non ha avuto in vita!», questa la sua conclusione. Ma, detto tra noi, il Di Giovanni era davvero folle o c’era del vero in ciò che diceva e per questo qualcuno gli aveva tappato la bocca?
Nei mesi scorsi la scritta fatta con della vernice verde “DON NERINO A TARDA SERA SI TAGLIA I CAPELLI” era apparsa sulla porta in legno dell’ingresso parrocchiale. Una frase apparentemente
senza senso, ma che invece poteva considerarsi ambigua in quanto di tagli di capelli e barbe a Firicalla se ne occupava Agostina Truscello, vedova Mineo, da quando il suo povero marito Cicitto era passato a miglior vita. Giunonica e frizzantina, aveva deciso di continuare a tenere aperto il salone prendendo in mano redini, pettini, rasoi e forbici. E quell’attività in breve aveva moltiplicato il numero dei clienti. E chi se ne fregava se i capelli non erano tagliati in modo uniforme e il viso era segnato da evidenti rasoiate! Gli uomini del paese erano tutti costantemente sbarbati, sfregiati e scalpati! La cosa che metteva in imbarazzo principalmente padre Cuppiddu era che quella scritta fosse una palese frecciata verso di lui che, al posto dei capelli, calzava in testa un riccioluto parrucchino! Di chi era stata quindi quella vile mano che aveva osato insinuare intrecci amorosi tra il “don” e la Truscello? Fatto sta che appena sveglio di buon’ora, sperando che la scritta fosse passata inosservata, il parroco si mise a cancellarla con olio di gomito. Avrebbe preferito finirla lì, ma poi, consigliato dalla stessa “barbiera”, aveva denunciato ai carabinieri il gesto generalizzandolo in imbrattamento ad opera di ignoti.
Sconosciuta era stata anche la mano che aveva imbucato il foglio nella cassetta parrocchiale che a grandi lettere a stampatello diceva: «TI PIACCIONO LE CROSTATE DELLA SIGNORA LUCIA, EH?!». Certo è che di essere buone lo erano, soprattutto quella fatta con le albicocche fresche. Don Nerino era un gran golosone, ma quei regali dovevano restare un segreto tra lui e la signora Lucia Minniti, in quanto il marito, Nanni Impalà, vice sindaco del paese, era gelosissimo della consorte e avrebbe mal sopportato che la moglie facesse dono di qualcosa, per giunta fatto con le sue manine, a qualsiasi “masculu” di Firicalla, compreso il casto, per voto, parroco.
E chi era stato, una domenica, a far trovare sul leggìo dell’altare, tra le pagine della Bibbia, la foto di don Nerino con la catechista Mariuzza Marcinnò, immortalati mano nella mano su di una panchina appartata del parco del vicino paese di Scanindoli? Don Cuppiddu sapeva bene il motivo di quell’incontro e il contenuto del discorso, ma quella foto agli occhi della gente, se resa pubblica, poteva apparire davvero un tenero momento trascorso tra due innamorati. Le malelingue firicallesi avrebbero trovato pane per i loro denti e se ne fosse venuto a conoscenza il vescovo, si sarebbe aperto un caso scottante che lo poteva mettere in seri guai. Tutti gli indizi conducevano quindi verso don Nerino ad essere indicato come il carnefice del folle “predicatore”.
Ma questo, finora, grazie al buon Dio, era un allarme che aveva percepito soltanto lui. A parte la scritta sul portone, tra l’altro fatta in un orario difficilmente visibile dai paesani, c’era stata molta discrezione da parte di chi aveva inviato quei segnali. E se non fosse stato il predicatore? E chi poteva essere allora? Ma, no! Era evidente la follia di quell’uomo! Lo squilibrato ogni volta che accendeva il megafono metteva in crisi l’intero paese. «A chi toccherà stavolta finire nelle prediche del folle? Speriamo non faccia nomi!», questo diceva speranzosa gran parte delle persone. Era evidente che in molti avevano tanti di quegli scheletri appesi nel proprio armadio che aprendo le ante era come accedere al cimitero! Erano in parecchi che avrebbero preferito sapere sottoterra il povero folle anziché vederlo con quel megafono in mano a sbraitare malignità. Una di quelli era proprio la moglie del vice sindaco. Tutte le volte che la vedeva per strada, le sussurrava: «Buona la crostata! Viene meglio con le albicocche o con le ciliegie?», e lei con le guance colorate di rosso faceva finta di nulla anche se avrebbe voluto dargli una “borsettata” in faccia. Una volta osò dire una frase provocatoria perfino davanti al marito che, geloso com’era, prese a calci nel sedere il Di Giovanni, litigando in seguito con la moglie per sapere il significato di quella battuta. «Ma cosa vuoi che ne sappia? Non lo vedi che è uno scimunito?!», aveva risposto balbettando per la vergogna di avere gli occhi addosso di alcuni passanti che si fermarono per assistere alla scenetta.
Eppure Pietro Di Giovanni era un insegnante di storia e lettere del liceo classico “Dante Alighieri” andato in pensione soltanto da poco tempo. Fino a quel momento era un uomo stimatissimo dalla condotta ineccepibile. Amatissimo dagli alunni per il suo metodo d’insegnamento pacato e professionale. Una tra le figure di spicco del paese, premiato anche in innumerevoli concorsi nazionali ed internazionali di poesia e narrativa. Inoltre aveva tradotto l’intera Divina Commedia in dialetto stretto firicallese e proprio questo suo certosino lavoro gli aveva aperto le porte della popolarità. Invitato in diverse trasmissioni a carattere regionale e nazionale per parlare di questa particolarissima opera, era diventato un volto conosciuto al di fuori del piccolo comune siculo. Dopo aver raggiunto il traguardo della pensione, si chiuse in casa come un eremita di uno sperdutissimo monastero. Non volle vedere nessuno tra familiari e conoscenti spiegando al citofono, a chi lo contattava, che stava lavorando per qualcosa che al momento non poteva dire. Dopo qualche tempo, quando uscì di casa, era incredibilmente irriconoscibile per tutti. Capelli lunghi, barba incolta e vestito di un saio con sandali calzati ai piedi, sembrava un francescano! Uscito dal portoncino della sua abitazione si diresse verso la chiesa della “Santa croce di Gesù”.
C’era chi si girava più volte a guardarlo con un’espressione stupita del viso e chi già invece lo schedava come “u pacciu”, dando per scontato che fosse la follia la causa della sua metamorfosi. «Guarda chi c’è… il professore Di Giovanni, quello che non voleva più uscire da casa!», disse un cliente a Pippo il giornalaio. «No, ma che dici! Sei sicuro?! Chiddu un parrinu è! Non può essere u prufissuri!! Viristi bonu?», chiese dubbioso l’edicolante. «Sì! Iddu è!», sentenziò più di una voce tra la clientela del chiosco dei giornali. Tra stradine, vicoli e vicoletti, accompagnato dagli sguardi increduli della gente, Pietro Di Giovanni era giunto in chiesa. Lì, a detta di don Cuppiddu, gli aveva raccontato che in sogno era stato abbagliato da una luce intensa ed aveva udito una voce che gli chiedeva di andare a salvare le anime perché era imminente la fine del mondo. Poi, aveva dato segni di squilibrio! Gli aveva chiesto di indossare un abito ricavato da un telo e quindi di recarsi con lui, casa per casa, a confessare ogni singolo abitante del paese! All’ovvio rifiuto del sacerdote e al vano tentativo di riportarlo alla calma, era uscito dalla parrocchia minacciandolo di far sapere a tutti che lui era il demonio che attirava gente dentro la chiesa per condurla all’inferno! «Continua a peccare! Salverò io le anime dei fratelli guarendo i loro occhi dalla cecità che li affligge». Da questa conclusiva frase in poi aveva reso pubblici i suoi sermoni nei comizi della domenica mattina. Negli altri giorni girava per strada catechizzando tutti quelli che incrociava. In particolare teneva sott’occhio i movimenti di don Nerino e dal suo angolo nascosto di visione aveva notato il via vai dei parrocchiani, soprattutto di alcune signore, che andavano a trovare il don. Anche se quegli incontri erano privi di malizia, per il Di Giovanni si trattava comunque di riunioni organizzate dal demonio che aveva sedotto il sacerdote. Mal vedeva in particolare gli ingressi della signora Lucia con le crostate in dono. «Donne e gola! Ormai è posseduto!», questo borbottava di continuo ammonendo la gente di non andare più in chiesa, ma di seguire i suoi “utili consigli” per assicurarsi un posto nel giardino eterno. «Credetemi, il falso prete è l’inviato degli inferi per aumentare l’esercito degli infelici! Donne e gola! Solo a questo pensa!».
Dalle indagini era saltata fuori l’indiscrezione che accanto al cadavere tra varie macchie di sangue erano tuttavia ben definite due scritte: “anni” e “là”. In breve si era sparsa la voce che la scritta originale che qualcuno, dopo l’omicidio, aveva cercato di cancellare con la suola di una scarpa era: “Son finiti i nostri anni! È vicino l’aldilà!”.
«Questo vedrete che resterà un caso irrisolto! Non per mancanza di fiducia per gli investigatori che sono professionali, ma è un vicolo cieco e non ci sono indizi!».
In molti pensavano ciò e tra questi anche don Nerino e altre figure istituzionali del paese come il sindaco, il suo vice e il preside del “Dante Alighieri”. Gli inquirenti ovviamente non potevano sbilanciarsi, ma di certo tra sopralluoghi e interrogatori vari, dimostravano di non voler rassegnarsi a lasciare irrisolto questo caso. L’assassinio di Pietro Di Giovanni era uno di quei casi giudiziari che trattato nelle trasmissioni locali e non, faceva aumentare lo share d’ascolto per cui difficilmente sarebbe calata l’attenzione pubblica su questa vicenda. Il tranquillo paesino non era abituato a quello stress mediatico con troupe televisive e continue dirette tra le vie. Alcuni erano infastiditi da chi gli sbatteva il microfono in faccia cercando di carpire qualche dettaglio sulla figura del predicatore. Altri come Pippo il giornalaio e la prosperosa barbiera Agostina Truscello, invece, si trovavano a proprio agio in quel cancan cercando di cavalcare l’onda della popolarità del momento. Da queste interviste era saltata fuori l’avversione della vittima nei confronti del sacerdote e di alcune paesane. «Aveva insinuato che anch’io corteggiavo il prete! Vi immaginate? Ce l’aveva con le donne quel pazzo! Anche con quella santa donna della moglie del vice sindaco solo perché ogni tanto regalava delle torte alla parrocchia» -aveva raccontato al microfono di “Firicalla TV”, la truccatissima barbiera-. Gli investigatori non tralasciarono nessuna pista e per questo oltre don Nerino, ascoltarono nei propri uffici anche la Truscello e la signora Lucia Minniti. Quest’ultima, concorde sull’odio verso le donne del Di Giovanni, confermò che qualche stupida battuta era stata indirizzata anche a lei! «Non si metteva vergogna di niente! Insinuava fesserie anche davanti a mio marito! Comunque era un pazzo! Parlava sempre di fine del mondo e di aldilà!».
Sotto il torchio degli inquirenti passarono in tantissimi: tutti gli abitanti di “Vicolo delle Rose”, dove fu trovato il corpo, i colleghi di scuola, il preside, il sindaco e il vice. Proprio a questi chiesero se avesse avuto diverbi con la vittima a seguito di stupide battutine rivolte alla moglie. «Che devo dirvi?! Che fosse pazzo era evidente a tutti». Eppure il viso paonazzo del vice sindaco fece storcere il muso a chi gli poneva le domande. «Uhm, e se la scritta “anni” stesse per NANNI e “là” per IMPALA’…». L’intuito del Maresciallo Proietti lo portò ad un interrogatorio più incisivo con domande sempre più incalzanti finché il tentativo improvviso del vice sindaco di gettarsi dalla finestra del terzo piano della caserma fu la firma di quell’omicidio fatto per gelosia e per il timore che dalla bocca di quel folle potessero uscire pubblicamente insinuazioni su un rapporto tra la consorte e il prete che, anche se non veritiero, lo avrebbe fatto diventare un motivo di pettegolezzo minandone la sua seriosa ed integra figura di uomo delle istituzioni.